29 luglio 2006

..e tutto il resto è inutile

[...] Dopo quasi mezz’ora, le auto in fila formavano una coda di quasi mezzo chilometro, tutti erano scesi perché era impossibile stare nella macchina divenuta un forno. Edoarda aveva raggiunto il quarto posto. Aveva solo tre macchine davanti. Vedeva le facce dei militi della polizia stadale e quelle dei carabinieri. Aveva paura di sentirsi male, per il caldo, l’angoscia, e l’indifferenza di quel ragazzo seduto vicino a lei che non aveva nessuna paura, pur sapendo che fra pochi minuti sarebbe stato arrestato. Lo vedeva affondato nel sedile, il capo basso, completamnte disinteressato della propria sorte, e di tutto.
A una decina di metri c’era l’ufficiale della polizia stradale, all’ombra di un piccolo, solitario alberello, ombra vaga e inconsistente, tanto per non rimanere fulminato dal sole. Guardò l’orologio, guardò la lunga fila di macchine. Si avvicinò ai militi.
“Riprendiamo il blocco fra dieci minuti. Adesso fate passare svelte tutte le auto, se no s’ingorga troppo,” disse al milite con la paletta e ai carabinieri. La paletta del milite cominciò ad agitarsi veloce: via, via, via. Lei la vide senza credere a quello che vedeva. Via, via, via, la paletta mulinava in aria, via, via, via “Ci lasciano passare senza controllo,” disse a Duilio. Anche lui aveva visto, ma era rimasto immobile, privo di ogni emozione. A che serviva? Ora provava solo una continua sonnolenza.
Dietro di lei le altre auto che avevano visto il segnale di via libera strepitavano col clacson. Passò veloce, spinta, sospinta da quello strombettio. Passò sotto gli occhi dei militi e dei carabinieri col suo ragazzo dalla camicia a quadri e dalla testa rapata, proprio quello descritto dal fonograma della questura, ma militi e carabinieri non guardavano più nell’interno delle auto, guardavano il caos di auto che si era formato, le decine di auto che tentavano di superarsi per guadagnare la via libera, assordati dalle brusche accelerate dei motori.
Era in salvo, lei pensò, guidando veloce a dieci centimetri dalle macchine che aveva davanti, facendo ogni tanto qualche rabbioso sorpasso. Non lo avevano ancora arrestato, e lei poteva fare ancora qualcosa per lui. Ma che cosa? E perché? Perché d’improvviso il primo traviato in cui inciampava diveniva per lei così importante? Ed era saggio, era prudente, era ragioneole portarsi appresso, e non sapeva neppure dove portarlo, un tentativo di delinquente, uno squallido esempio di disadattato come quello? Che cosa poteva avere in comune con lui?
Lo guardò, sembrava un manichino. Se non gli avesse visto tremare le mani, poggiate sulle ossute ginocchia, un tremito leggero ma visibile, avrebbe potuto pensare che fosse di nuovo svenuto. “La porto da un avvocato,” disse “A Trieste ho un amico avvocato, sono stata proprio ieri a trovarlo. Dirà lui che cosa si può fare.”Le sembrava di poter rispondere a tutti quei perché, a tutte quelle domande, la voce di suo padre scavalcò di nuovo la tomba e le disse di nuovo che o c’era uno scopo per vivere o, se non c’era, non c’era vivere. Smise di guardare il disperato manichino che aveva a fianco e imboccò lo stradone per Trieste. Forse l’avvocato Tucher poteva salvare qualche cosa di quel resto di uomo che soffriva vicino a lei.
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Da Al mare con la ragazza di Giorgio Scerbanenco

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