14 maggio 2006

maestri e scolari















Maestri e scolari

Isaac Deutscher, rivoluzionario e biografo di Trockij e di Stalin, racconta una storia che aveva letto, da ragazzo, in un Midrash, uno di quei commenti rabbinici i quali spiegano i testi sacri ricorrendo anche alle parabole, che mostrano la verità calata nella vita.
In quel Midrash, si parlava di Rabbi Meir, un caposcuola dell’ortodossia ebraica, il quale era allievo di un eretico, Elisha ben Abiyuh, detto Akher. Un sabato i due discutevano accanitamente di questioni religiose, Akher in groppa a un asino e Rabbi Meir a piedi, in ossequio al divieto di cavalcare nel giorno sacro; presi dalla loro controversia, erano giunti senza accorgersi al limite del cammino che, di sabato, un pio ebreo non può oltrepassare. Rabbi Meir, distratto, stava per varcarlo, quando il suo maestro eretico, che sino a quel momento aveva confutato le sue tesi ortodosse, lo fermò dicendogli di tornare indietro, perché quello era il suo confine ed egli non doveva procedere oltre per seguirlo.

Questa storia è uno dei più intensi apologhi sul rapporto tra maestro e allievo e in primo luogo sulla figura del maestro. Come ogni parabola, pure questa è densa di significati contrastanti e si presta a molteplici interpretazioni. Anzitutto maestro e allievo professano, su problemi essenziali, fedi diverse. Il primo non trasmette al secondo una verità teologica o filosofica, ma gli offre l’esempio vivente di come la si cerca; gli insegna la chiarezza di pensiero, la passione della verità e il rispetto per gli altri, che non può essere disgiunto da quest’ultima.
Il maestro è tale perché, pur affermando le proprie convinzioni, non vuole imporle al suo discepolo; non cerca seguaci, non vuole formare copie di se stesso, bensì intelligenze indipendenti, capaci di andare per la loro strada. Anzi, egli è un maestro solo in quanto sa capire quale sia la strada giusta per il suo allievo e sa aiutarlo a trovarla e percorrerla, a non tradire l’essenza della sua persona.
Lungi dallo schernire l’ortodossia codificata, secondo la retorica della trasgressione, cara agli spiriti banali che credono di affermare la propria originalità gettando immondizia dal finestrino solo perché un cartello lo vieta, il grande eretico esorta il discepolo a osservare il sabato, che egli invece non si sente di riconoscere.

La parabola può aiutare a rispondere agli interrogativi odierni sulla figura del maestro, che spesso e a molti appare, se non estinta, in via di estinzione o addirittura impossibile o impensabile in una società come quella contemporanea, caratterizzata – positivamente o negativamente, a seconda delle opinioni – dall’eclissi di valori e di messaggi forti, dal tramonto dei dialoghi sui massimi sistemi e dalle grandi contrapposizioni filosofiche e ideologiche, sostituite da un pullulare indistinto di suggestioni, stimoli, messaggi subliminali, percezioni capillari e da una crescente interscambiabilità fra cosiddette esperienze reali e virtuali.
Questi aspetti della società contemporanea – che è ingenuo esaltare, ma patetico deplorare – non comportano inevitabilmente un impoverimento dell’individualità in senzo forte nè decretano la fine dei maestri. Come rivela l’apologo, questi non sono necessariamente le figure che trasmettono la Legge; possono essere anarchici che la trasgrediscono, ma sempre in nome della necessità di trovare la propria via alla Legge.
Akher rinuncia all’aureola ambigua che avvolge i falsi maestri e talora, involontariamente anche quelli veri: la seduzione. Il mondo è pieno di controfigure di maestri, che prendono il loro posto come in un film una controfigura sostituisce l’attore protagonista in una scena spericolata, ripresa da lontano comunque in modo tale da nascondere allo spettatore la sostituzione. Abbondano i personaggi che ambiscono a fare scuola, creare schieramenti e slogan, mobilitare seguaci, persuadere discepoli, generare fans e imitatori; personaggi che per esistere hanno bisigno di sedurre con allettanti promesse chi ha un ansioso e vago desiderio di redenzione facile e immediata.
Avere autentici maestri è una grande fortuna, ma è anche un merito, perché presuppone la capacità di saperli riconoscere e di sapere accettare il loro aiuto; non solo dare, pure ricevere è segno di libertà e un uomo libero è chi sa confessare la propria debolezza e afferrare la mano offertagli.
Un vero maestro non è tanto un padre, quanto un fratello maggiore, che presto diventa semplicemente un fratello. Forse essere un maestro significa, oggi più che mai, non sapere di esserlo e non volerlo, dimenticare se stesso nel dialogo che si instaura con un altro, trattarlo da pari senza superbia, senza condiscendenza e senza preoccupazioni pedagogiche – anche attaccandolo senza pietà, quando è il caso.
Un professore può modestamente contribuire a formare gli allievi se li tratta senza supponenza né riguardo, correggendoli e facendosi correggere da loro, senza cercare una falsa confidenza che impedisce un reale rapporto. “Sapesse quanta fatica mi costa” – mi disse un giorno una studentessa – “dare del tu al prof. X, come egli ci impone!”.

Ho avuto dei maestri e debbo a loro quel poco di libertà interiore che possiedo e che essi mi hanno dato trattandomi da pari a pari, anche quando ciò mi crea notevoli difficoltà dinnanzi alla loro statura intellettuale e umana, ma facendomi in tal modo capire che in un dialogo si è sempre pari, anche quando chi ci sta di fronte ha al suo attivo esperienze, prove superate, prestazioni intellettuali tanto più alte. E’ questa rischiosa e buona parità che insegnano i maestri. Essi insegnano soprattutto la responsabilità. Forse è la frequente carenza di quest’ultima che ha ispirato a Rossana Rossanda in una incisiva testimonianza, la malinconica e ferma constatazione dell’assenza di maestri, capaci di cercare il senso del mondo e di farlo riverberare anche nella propria vita.
Responsabilità significa pagare il prezzo che ogni affermazione e ogni azione comportano, affrontare le conseguenze di ogni presa di posizione e le rinunce implicite in ogni scelta; essa significa in primo luogo, come indica l’esempio di Akher, non spingere altri su strade che essi non sono in grado di percorrere. I falsi maestri creano spesso clan di seguaci destinati a essere vittime, come un profeta della droga, capace di dominare personalmente il suo uso senza farsi distruggere, trascina e rovina i suoi discepoli, che non hanno la forza di seguirlo in quella pratica senza autodistruggersi.
Negli anni Settanta c’era chi predicava che la rivoluzione si fa col fucile, ben consapevole che per lui si trattava di un’innocua metafora e lasciando che altri prendessero quelle parole alla lettera, trovandosi poi, a differenza del maestro, a pagarne il fio.
Maestro è chi non ha programmato di esserlo. Chi invece si atteggia a piccolo Socrate è facilmente patetico; non lo è più, quando si rende conto che non potrà mai essere Socrate, bensì al massimo uno dei suoi interlocutori che si ritrovano alla fine confutati, ma arricchiti. Saper essere e restare scolari non è poco, è già quasi essere maestri.
Claudio Magris, Utopia e disincanto
.
a Claudio Cacioli, maestro e amico

6 commenti:

Anonimo ha detto...

Ma l'hai trascritto tu? O...? Come la prenderebbe Magris?

Anonimo ha detto...

Bello davvero. L'ho chiesto due settimane fa alla Cortina, ma non è ancora arrivato. Non vedo l'ora di leggerlo.
AdF

Anonimo ha detto...

bellissimo il film...davvero!!anche perchè me l'hai fatto vedere tu...o cmq l'ho visto insieme a te!!
....in barba al dottor Barbone!!
(mi chiamo Barbones!!)

lunico ha detto...

lo so, io lo so, anonimo barbones, che tu puoi fare di meglio! Tu puoi esserlo!! Il Gabriele Paolini di questo blog!

Anonimo ha detto...

Scusate l'ignorantia: qual è il film?

lunico ha detto...

Il film dell'immagine in alto è Les Coristes, che si pronuncia 'leciuarist'